Pubblichiamo l’articolo a firma di Harald Bonura e Davide Di Russo apparso sul numero odierno del Quotidiano Enti locali & Pa del Sole 24 Ore.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 578/2019, sembra avere messo la parola fine un’intricata vicenda giudiziaria che ha provocato una vasta eco, non solo locale.
Il caso
Al centro della questione, la sorte delle partecipazioni detenute da un numeroso gruppo di Comuni all’interno di una holding a capitale misto, pubblico e privato, operante prevalentemente nel settore delle public utilities. Gli enti locali, infatti – chiamati dal Dlgs 175/2016 a giustificare la legittimità delle partecipazioni nell’ambito del piano di ricognizione straordinaria – essendo incappati in uno dei divieti di legge (la holding in questione aveva un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti), avevano deliberato, quale misura di razionalizzazione, la fusione per incorporazione nella holding, di un’altra società del gruppo, operante nel settore della telefonia. I soci privati, ritenendo comunque illegittime le partecipazioni pubbliche anche dopo le misure di razionalizzazione deliberate, si sono rivolti al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dei piani.
La sentenza di primo grado
Il Tar Veneto, in primo grado (sentenza n. 363/2018), aveva concluso per l’illegittimità degli atti adottati dai Comuni sulla base di un sillogismo elaborato dal giudice contabile (Corte dei conti della Lombardia, sezione di controllo, delibera 398/2016) e fatto proprio da quello amministrativo: se le pubbliche amministrazioni possono detenere partecipazioni soltanto in società che svolgono servizi di interesse generale, e se sono tali solo quelle attività che possono essere svolte solo tramite l’intervento pubblico, allora una partecipazione “pulviscolare” (in condizioni di sostanziale irrilevanza del ruolo pubblico) non consente -oggettivamente – di configurare questo tipo di attività (che, evidentemente, ben potrebbe essere svolta dal mercato).
A questo sillogismo, il giudice di primo grado ha aggiunto che, in ogni caso, né le attività di vendita del gas né quelle di telecomunicazione potessero essere fatte rientrare tra i servizi di interesse generale.
La decisione di Palazzo Spada
Il Consiglio di Stato ha confermato gli effetti della prima sentenza, ma sulla base di una diversa motivazione. Per il giudice di Palazzo Spada non è corretto affermare che una partecipazione pulviscolare esclude di per sé lo svolgimento di un servizio di interesse generale, perché la definizione di un’attività (di interesse generale o meno) non dipende dalle modalità organizzative con le quali è svolta. È vero invece che la partecipazione pulviscolare, in assenza di coordinamento istituzionalizzato con gli altri soci pubblici, è inidonea a consentire ai singoli soggetti pubblici di orientare le scelte strategiche della società al soddisfacimento dei bisogni della collettività di riferimento (elemento, questo, che contraddistingue i servizi di interesse generale in base all’articolo. 2, comma. 1, lettera. h, del Testo unico). Di qui, l’altro snodo della «diversa motivazione» del Consiglio di Stato: i servizi di interesse generale sono le attività di Consiglio di Stato, sulle partecipate scelte autonome degli enti di produzione di beni e servizi necessari a soddisfare i bisogni della collettività di riferimento; e spetta alle singole amministrazioni stabilire quali siano i bisogni da soddisfare e i mezzi più adatti per garantire tale soddisfacimento, «sempre che la soddisfazione dei detti bisogni non sia già rimessa alla competenza di un’altra amministrazione pubblica».
Se così è, il Consiglio di Stato apre il varco per affermare che la legittimità di una partecipazione societaria pubblica dipende (in relazione all’articolo. 4, comma. 2, lettera. a, del Testo unico) da una scelta di «ordine eminentemente politico-strategico», in quanto tale sindacabile esclusivamente sul punto dell’eventuale “travalicamento” della competenza a danno di altre amministrazioni pubbliche.
Il Consiglio di Stato, insomma, in apparente adesione a un emergente orientamento culturale di maggiore legittimazione dell’intervento pubblico diretto in economia, non dà alcun rilievo (come pure richiesto dalla norma, nella parte in cui ritiene che il servizio possa configurarsi d’interesse generale solo quando non può essere svolto dal mercato o non può esserlo alle condizioni ritenute necessarie) al possibile conflitto tra intervento pubblico e mercato (rinviando, sul punto, al principio euro-unitario della “neutralità” della proprietà, pubblica o privata, dell’impresa; articolo 106 del Tfue), ma solo all’eventuale conflitto interno all’apparato pubblico.
Si tratta, con ogni evidenza, oltre che di un drastico stop ai principali obblighi del Testo unico, di una notevole apertura di credito nei confronti dei Comuni che, in quanto enti autonomi a fini generali, potranno decidere di produrre qualunque attività economica tramite imprese pubbliche locali, con due soli limiti: che la soddisfazione dei bisogni cui è funzionale la società non sia istituzionalmente affidata a un’altra pubblica amministrazione; e che la partecipazione, se pulviscolare, si coordini stabilmente – attraverso patti parasociali o norme statutarie – con gli altri soci pubblici così da poter incidere sulle scelte strategiche della società.